Aerosmith - NIGHT IN THE RUTS - Disco in vinile - Prima stampa, Stampa giapponese - 1979

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Night In The Ruts il sesto album del gruppo sarà infatti l'ultimo a vedere la formazione classica insieme per molti anni e come è facile intuire è nato tra mille difficoltà. La band è praticamente fuori controllo: troppa droga, troppi soldi, troppe auto veloci e pasticci di ogni tipo, soprattutto a livello personale ed emotivo. I problemi iniziano subito: durante le registrazioni, la casa discografica decide di togliere la produzione del disco allo storico Jack Douglas, passandola a Gary Lyons. Una scelta che si rivelerà in ogni caso più che azzeccata. Successivamente, temendo una scarsa risposta economica dall'album, ha lanciato la band in tour per generare qualche anticipazione. Il lavoro di registrazione fu così interrotto quando Perry aveva completato le sue parti in sole cinque tracce: No Surprize, Chiquita, Cheese Cake, Three Mile Smile e Bone to Bone (Coney Island White Fish Boy). In tour le cose vanno in discesa e il chitarrista saluta il circus senza completare le date, sbattendo la porta. La band si ritrova così con un disco a metà e torna in studio lasciando che le parti mancanti di Perry vengano completate in parte da Tom Hamilton, in parte da quello che sarà il sostituto ufficiale: Jimmy Crespo e il resto da talentuosi session men come Richie Supa e Neil Thompson. I presupposti per un record debole, prettamente professionale, ci sono tutti. E invece... Invece Night In The Ruts (provate a invertire le iniziali della prima e dell'ultima parola) è uno di quei dischi ingiustamente dimenticati dal tempo e fin troppo sottovalutati. Un disco che merita non solo una rispolverata ma una vera e propria rivalutazione: se pensate di trovarvi di fronte a una band stanca, esausta, svogliata e poco ispirata, avete davvero sbagliato indirizzo. Solitamente quando si scrive e si legge di Hard Rock è impossibile non trovarsi di fronte ad aggettivi come caldo, torrido, adrenalinico, elettrico e via figure retoriche. Un lessico abusato, ormai parte integrante dell'immaginario duro eppure così caro e indispensabile quando si tratta di descrivere un disco come questo. Permettetemi quindi di unire questi aggettivi ad altre espressioni tipiche: sporco, sudato e depravato. Questo è Night In The Ruts: il disco di un gruppo di talento stellare, che ha ancora intatta la sua ispirazione e ha portato il suo marchio, un tocco malvagio e vizioso, ai massimi livelli, coinvolgendo anche la sua stessa vita e il suo destino in una corsa maledetta. Night In The Ruts ha tutta quella carica abrasiva e sgarbata che vorremmo sentire in ogni prodotto del genere e che manca tanto oggi agli stessi Aerosmith. Allora godiamoci questo canto del cigno che non ha nulla di malinconico e morde il culo come un segugio infernale.

L'opener No Surprize ci dice già molto del tono e delle coordinate che avrà l'intero disco: rock'n'roll incandescente pieno di testosterone e baciato da numerosi soli blues con dipendenza immediata. Southern ha condotto con un'urgenza quasi punk (!) nel dissoluto Chiquita, primo singolo estratto, con una sezione di fiati di prim'ordine che suona come una banda di ubriachi delle quattro del mattino fuori dal saloon. È il turno della fantastica semi-ballata Remember (Walking In The Sand) - cover di un vecchio brano del gruppo The Shangri-Las - ricca di cori e ritmi soul da batticuore; blues malaticcio in Cheese Cake introdotto dalla slide di Joe Perry mentre Three Mile Smile è un hard granitico, punteggiato dalla batteria di Kramer. Ancora blues in Reefer Head Woman con tanto di solo-da-paura: più canonico e tutto sommato consumato ma comunque piacevole nel suo essere classico. Torniamo al tipico hard della band in Bone To Bone (Coney Island White Fish Boy) e quando dico tipico intendo focoso, saturo, maledetto fino al midollo, con un Tyler posseduto che ti fa rabbrividire. Think About It è ancora hard'n'blues da batticuore e così arriviamo alla Mia finale: pauroso ritmo lento, evidente terra di conquista per l'istrionico Steven Tyler.

Nove canzoni, trentacinque minuti di paura e l'era d'oro degli Aerosmith finisce col botto. Difficile chiedere di più ad un gruppo evidentemente minato nelle fondamenta e che presto perderà anche l'altro chitarrista Brad Whitford. Prima o poi il giocattolo si rompe, come dicevamo all'inizio, ma la storia di questa grande band non finisce qui. L'addio di Joe Perry è comunque un album più che valido, vibrante e grintoso al punto da essere considerato uno dei migliori della band. Un'opera che ascoltata oggi non ha perso nulla del suo fascino e del suo valore e anche questo contribuisce a farne un classico da riscoprire assolutamente. Chiudi

Luogo: Veneto - Vicenza

Aggiunto a 2 giorni fa e scade il 8 June
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